Amerigo Verardi - Un sogno di Maila (2021)

Ascoltando Un sogno di Maila viene in mente l’album Un gusto superiore di Paolo Tofani e Claudio Rocchi, e non tanto per lo stile generale, quanto per la retroguardia ideologico-musicale che governava quel disco e che ci pare di ritrovare in qualche modo anche in questo. Una sorta di misticismo che nel caso del duo Rocchi-Tofani era figlio di certi anni settanta votati alle filosofie e alla musica orientali, mentre per Verardi diventa una commistione riuscita e decisamente più strutturata di dimensione musicale etnica in odore di raga, rock pinkfloydiano e psichedelia.

Insomma, l’ex Allison Run è uno con un bagaglio musicale enorme e tantissime esperienze alle spalle – Lotus, Lula e una carriera solista ormai lunga – ma anche una vena “pop” e una visione di insieme della musica molto raffinata e consapevole. Lo avevamo sottolineato ai tempi del precedente e ottimo Hippie Dixit e lo ribadiamo ora avendo tra le mani Un sogno di Maila. Che, detta come deve essere detta, non è un disco breve – 77 minuti di programma – né immediato, come non lo è mai la musica quando si estranea dal tran tran quotidiano dei generi più in voga nelle playlist di Spotify per confinarsi in un spazio interiore meditativo, se non proprio esplorativo.

A instradare tutti i venti brani in scaletta (comprensivi di cinque brevi intermezzi) su un unico binario tematico, un concept che «ruota attorno all’elemento centrale del sogno, utilizzando come filo conduttore la vita del personaggio femminile di Maila». Una giustificazione creativa che si trasforma in eterei sviluppi a marca Gilmour-Waters-Mason-Wright delocalizzati in India (Maila Mantra, Un’incredibile estate), ma anche in surreali beat & roll celentaniani (Gioco con i maschi gioco con le femmine), rock (la bluriana Aiuto, Droghe per il popolino, La mia amica Stefania), psych-raga guidati dal suono del sitar come li avrebbero scritti i Kula Shaker (Amor Vincit Omnia) e molto altro. Il tutto sottolineato da una ricchezza timbrica e strumentale che ammalia, tra chitarra, basso, percussioni, pianoforte, autoharp, xilofono, cetra, flauto, campionamenti, sax, sintetizzatori, harmonium, registrazioni d’ambiente e chissà cos’altro.

Ad ascolto concluso, ciò che si apprezza non è solo il brano singolo – anche se non mancano i picchi in questo senso, ad esempio una Everest molto ricca dal punto di vista melodico – bensì il modo in cui Verardi riesce a condurti con grazia e cura in un mondo che pare a prima vista esotico e nostalgico, ma che dopo un paio di ascolti trovi assai confortevole e nutriente. È un po’ come ritrovarsi immersi in un’opera di narrativa che ti prende un po’ alla volta: i colori pian piano si fanno pastosi e brillanti e la storia comincia a coinvolgerti, anche se i ritmi rimangono piacevolmente lenti. Insomma, lo avrete capito, si tratta dell’ennesimo, bellissimo disco di Amerigo Verardi.