Se si legge il titolo “Golem” e poi si scorge il nome della formazione “Jewish experience” si corre il rischio di pensare immediatamente ad una operazione realizzata sulla scia e ad imitazione di una delle mode caratterizzanti questi ultimi anni: il klezmer attualizzato. Per completare il quadro il leader, Gabriele Coen, suona il clarinetto come Don Byron, musicista noto per aver ripercorso la musica della cultura ebraica in dischi storici come “Play the music of Mickey Katz” o come David Krakauer altro esponente di spicco del jazz intriso di elementi klezmer. A conti fatti anche il modello del “John Zorn-Masada” viene alla memoria, a priori, prima dell’analisi del disco. Insomma la possibilità di trovarci di fronte ad un prodotto confezionato in modo “provinciale”, alla maniera di…c’è tutta. Invece, aprendo la copertina, si scopre che le note sono firmate da Gianfranco Salvatore, giornalista geniale, attento, rigoroso e poco incline a “regalare” giudizi positivi a chiunque pubblichi cd di genere o di confine. Ascoltando il disco, poi, cadono tutti i pregiudizi.
Siamo di fronte ad un cd con un alto grado di elaborazione, ben concepito e ben suonato. Siamo lontani tanto dalla ripresa della tradizione ebraica, spesso anche troppo letterale, di Don Byron, come dall’appropriazione esasperata, in alcuni tratti dura e poco consolatoria di John Zorn. C’è in Coen e soci, prima di tutto, un profondo rispetto per quanto viene proposto e allo stesso tempo si avverte una chiara tensione per inserire elementi personali, con parsimonia e affetto, in un repertorio a volte già parecchio “battuto”. Si comincia con “Glik”. Coen presenta la melodia del canto tradizionale con il sax soprano. All’interno del brano si può ammirare, fra l’altro, un pregevole assolo molto melodico del basso di Marco Loddo. “Quando el rey Nimrod”, ancora proveniente dalla tradizione ebraica, si apre con il suono distorto della chitarra di Lutte Berg, in dialogo con il tenore del leader. Il brano ha un andamento solenne e allo stesso tempo malinconico e ha una chiusura sospesa, in calando. “Dona dona” è una canzone famosissima, tradotta e interpretata in italiano negli anni sessanta da Herbert Pagani e portata al successo internazionale da Joan Baez. Qui Coen ne velocizza il tempo, rispettando, però, la struttura e il significato del “song”, scritto all’epoca della shoah. “Miseriou” ha un andamento arabeggiante e un ritmo sostenuto. E’ un brano tradizionale non solo della cultura ebraica; infatti è suonato anche in tutto il nordafrica ed è patente il suo “sapor mediorientale” come direbbe la Nannini. “Mashav” si ricollega a John Zorn-Masada. Coen usa il clarinetto, sfruttando al meglio le note basse e i glissandi. Lutte Berg si produce in solo con il suono distorto della chitarra elettrica, facendo assumere al brano un carattere rock-blues piuttosto energico, quasi violento. “Dance of the souls” di Mickey Katz è dominato ancora dal clarinetto del leader, su un tempo andante-medio e si apre ad un intervento solistico a tratti percussivo del piano di Pietro Lussu. Il leader si impegna, poi, ancora con il clarinetto in “The very last waltz”, un brano di sua composizione, caratterizzato da un accelerando continuo, in un’atmosfera che ricorda i canti russi, fino al cambio di tempo e di scenario sul finale del pezzo. C’è spazio anche grazie a “Come in peace”, nuovamente di Mickey Katz, per una ballad solenne e malinconica, sul versante intimista, in cui il clarinetto di Coen si lascia andare al canto, limitandosi a interpretare la canzone senza aggiungere variazioni o ammodernamenti, per riguardo al tema e all’autore. Si chiude con “Cuban shalom” un intermezzo giocoso, che vuole trasferire su ritmi caraibici la melodia di un’antica preghiera ebraica.
Siamo prossimi ad un’operazione in stile “Masada” ma con un approccio, uno stile molto più discreti e “timidi” (come contrario di “sfacciati”). E’ fondamentale, in questo contesto, il contributo dei bongos e dello shaker di Simone Haggiag. “Golem” si propone come un punto fermo nella discografia di un artista che ha già pubblicato diversi dischi e che privilegia la fase progettuale a quella improvvisativa, senza trascurare quest’ultima, ma controllandone gli spazi. E’ da apprezzare, infine, il grado di coesione raggiunto da un gruppo di musicisti di valore, che si dedicano con convinzione ad una musica indefinibile, imparentata certamente con il jazz e che ha il punto di forza negli arrangiamenti e nelle composizioni di Gabriele Coen.
~ Gianni B. Montano per Jazzitalia